Un’intervista che ha fatto scuola. Nel 1979 alle domande della Fallaci il Colonnello cambiò argomento, nel 2011 la Fallaci è sempre la sua risposta.

Nel 1979 Oriana Fallaci riesce a intervistare Gheddafi, poiché la maggior parte dei soggetti delle sue interviste erano potenti capi di stato, molti di loro autocrati con scarsa esperienza in contraddittori, il suo stile combattivo porta a una lettura emozionante. Qui ne riporto due stralci. Quello che sembra più rilevante per capire la reazione di Gheddafi alle proteste di oggi, però, è il concetto di “Jamahiriya”, che egli invoca, con un vago misticismo insistente, per dire che un governo rappresentativo non esiste in Libia, anzi, il governo non esiste, perché la volontà del popolo è uno e lo stesso con il suo: “L’autorità del popolo è raggiunto, il sogno è realizzato. La lotta è finita “.

Così il colonnello ha spiegato il suo legame con l’ayatollah

Neanche due ore dopo l’incendio dell’ambasciata degli Stati Uniti a Tripoli un diplomatico americano mi ha telefonato chiedendo se ritenevo che esistesse un rapporto tra l’episodio e l’intervista (appena pubblicata dal Corriere della Sera) che avevo ottenuto da Gheddafi. Intervista con la quale egli professava un aperto filosovietismo e si scagliava con inaspettata violenza contro gli Stati Uniti e dichiarava che: 1) nelle basi militari americane d’Europa c’era movimento di truppe e se Jim Carter avesse attaccato l’Iran, la Libia non sarebbe rimasta neutrale; 2) il saccheggio delle ambasciate americane in Turchia, in India, nel Bangladesh, in Pakistan dove sei degli impiegati erano morti e il fatto stesso che l’ambasciata di Teheran fosse stata minata dimostrava come fosse in atto una «rivoluzione internazionale contro l’America»; 3) al fine di impedire che il conflitto si allargasse bisognava sì intervenire presso Komeini pregandolo di rilasciare gli ostaggi, ma il loro sequestro riguardava esclusivamente l’Iran ed egli era molto contento che la rivoluzione iraniana fosse riuscita due volte: una volta cacciando lo scià e una volta cacciando gli americani; 4) gli americani avevano torto a prendersela tanto per quel sequestro perché quando le ambasciate o alcuni membri di esse interferiscono negli affari interni del paese che le ospita, quel paese non può garantirne l’immunità diplomatica. (Osservazione con cui Gheddafi sposa in pieno la tesi di Komeini secondo il qualche l’ambasciata USA di Teheran sarebbe stata una centrale di spionaggio). 5) la sostituzione del dollaro con altre monete pregiate era allo studio dei paesi dell’OPEC: oltre all’Iran, l’Iraq, l’Algeria, anche la Libia stava esaminando seriamente la faccenda. E così l’Arabia Saudita, il Kuwait, gli Emirati. Era allo studio dei paesi arabi anche la decisione di ritirare i loro depositi dalle banche americane e se queste avessero congelato il denaro, gli arabi avrebbero reagito di brutto; 6) indiscutibilmente si stava andando verso l’uso del petrolio come arma politica, e questo includeva il possibile rifiuto di vendere il petrolio agli Stti Uniti nonché ai paesi europei che si sarebbero schierati con gli Stati Uniti; 7) se le cose avessero raggiunto un punto critico, la Libia avrebbe attuato la minaccia di diventare membro del Patto di Varsavia. Inoltre Gheddafi elencava i paesi arabi «nemici della nazione araba» e metteva l’Egitto al primo posto della lista nera. Al secondo, il Sudan, la Somalia e l’Oman.
Subito dopo la chiamata del diplomatico americano, numerosi giornalisti stranieri mi hanno telefonato ponendomi lo stesso quesito e, da Washington, la France Presse ha trasmesso un dispaccio nel quale si diceva che le autorità americane non avevano ancora stabilito se esistesse un legame fra l’attacco avvenuto domenica mattina alla loro ambasciata di Tripoli e la quasi contemporanea pubblicazione della mia intervista a Gheddafi. Ebbene, la domanda che mi viene posta è esattamente la stessa che io mi pongo. Ritengo utile, quindi, fornire gli elementi che possono aiutarci a trovare una risposta.
Giunsi a Tripoli domenica 18 novembre, proveniente da Nuova York via Roma, dopo aver richiesto e fissato l’intervista attraverso il rappresentante della Libia all’ONU. La data dell’incontro non era stabilita sebbene mi fosse stato fatto capire che probabilmente avrei visto Gheddafi a metà settimana, verso mercoledì o giovedì. In nessuno di quei due giorni l’incontro avvenne perché, mi spiegò il suo segretario personale, Ibraim Ngiad, il colonnello era oppresso da «moltissimi impegni». Anzitutto, la visita del ministro degli esteri e del rappresentante dell’ufficio politico dello Yemen del Sud (lo Yemen comunista), poi la visita del presidente dello Yemen del Nord, infine una serie di incontri e di comizi con le associazioni degli studenti libici, coi congressi popolari, con gruppi di miliziani e di soldati.. Informazione questa alla quale non detti molto peso e di cui colgo soltanto ora l’importanza: l’attacco all’ambasciata americana di Tripoli è partito infatti dagli studenti e ad esso hanno partecipato anche numerosi miliziani in uniforme e soldati.
Nelle prime ore del pomeriggio di venerdì 23 novembre venni informata che l’incontro con Gheddafi sarebbe avvenuto verso le diciotto, e infatti alle diciassette venni prelevata al mio albergo insieme al fotografo del Corriere Giuseppe Colombo. Alle diciassette e mezzo, dopo essere stata accuratamente perquisita, ero nell’ufficio di Gheddafi che però si presentò soltanto alle ventuno e quindici dicendo che aveva dovuto ricevere nuovamente per alcune ore il presidente dello Yemen del Nord. L’intervista, registrata su nastro da me e da lui, durò fino a mezzanotte meno venti quando fissai un secondo incontro per l’indomani. L’indomani pomeriggio, sabato 24 novembre, venni prelevata come il giorno prima e condotta nella tenda che Gheddafi tiene all’interno del campo militare in cui abita.
Stavolta l’intervista incominciò verso le diciotto e durò fin verso le venti e quindici. Il filosovietismo e l’antiamericanismo di Gheddafi si espressero in questo secondo incontro con raddoppiata virulenza estendendosi all’Occidente e giungendo a difendere Amin e Bokassa, da lui visti come vittime dell’imperialismo sionista. Non chiesi a Gheddafi (la domanda mi è stata rivolta dall’agenzia Reuter) se anche in Libia l’ambasciata americana e le ambasciate occidentali rischiavano attacchi come quelli avvenuti in Iran, in Pakistan, in India, in Turchia, nel Bangladesh. Non glielo chiesi perché mi parve ingenuo sollecitare una risposta cui nessun capo politico con un po’ di cervello avrebbe reagito in termini affermativi. Come risulta dalle parole di Gheddafi non è di prima qualità, ma dinanzi a certo quesiti sa barcamenarsi con prudenza e a volte addirittura con abilità. È furbo, insomma. Però, ecco il punto interessante, prima di congedarsi il suo segretario mi chiese quando avrei pubblicato l’intervista. Ed io risposi: «Domenica 2 dicembre sul Corriere della Sera, subito dopo sul New York Times e sugli altri quotidiani e settimanali che pubblicano le mie interviste negli Stati Uniti, in Europa, nell’America Latina e in Asia». Se Gheddafi voleva materializzare con un esempio tutto ciò che mi aveva detto e magari far questo contemporaneamente alla pubblicazione ell’intervista, il tempo necessario ad organizzare la cosa non gli è mancato.
Perché non tutte le frasi di un’intervista vengono utilizzate per la pubblicazione (scriverla significa anche scegliere le parti più importanti ed interessanti), e poiché la trascrizione del dialogo registrato era un po’ più lunga del testo da me dato al Corriere della Sera, m’è parso opportuno ricercare quel che avevo scartato. E ora mi sembra giusto riportarlo. Ecco.

ORIANA FALLACI. Colonnello Gheddafi, all’ultima conferenza dei Paesi non allineati, a Cuba, vi sono state due prese di posizione: quella di Fidel Castro, filosovietica, e quella del maresciallo Tito: veramente non allineata. Quale delle due approva?
MUAMMAR GHEDDAFI. «Io non sono andato a Cuba, io non c’ero a Cuba».

Ma cosa importa se a Cuba lei personalmente c’era o non c’era! Le sto chiedendo se lei approva il discorso di Castro, oppure quella di Tito!
«Entrambi i due discorsi hanno espresso una realtà».

Colonnello, qual è la «sua» realtà?
«Io sono diverso da loro. Comprendo e rispetto Castro perché parla della sua realtà…Però comprendo e rispetto anche Tito che parla della sua. La domanda che mi ha posto non è legittima».

È legittima eccome, colonnello: sia da un punto di vista giornalistico che politico e storico. Mi risponda, per favore.
«Le ho detto che a Cuba io non c’ero».
(Ride)

Colonnello, non c’è nulla da ridere, Mi risponda, per favore.
«Le ho già risposto».

Colonnello, lei è scoraggiante. E a questo punto mi sembra superfluo chiederle se condivide i sospetti di chi vede l’unione Sovietica dietro gli avvenimenti iraniani.
«Sì. Certo, lo escludo».

Colonnello, è un fatto che i rapporti diplomatici tra la Libia e l’Iran sono ripresi dolo l’invasione dell’ambasciata americana a Teheran e la cattura dei diplomatici ora tenuti in ostaggio.
«Dopo la rivoluzione (N.d.R.) cioè prima che la Libia e l’Iran riaprissero le rispettive ambasciate i nostri rapporti con Teheran sono stati qualcosa di più che quelli consentiti da una rappresentanza diplomatica».

Che significa?
«Quello che ho detto».

Colonnello, lei vuole farmi credere che la sua amicizia con l’Iran fosse ripresa da molto tempo. Però a me risulta il contrario. A metà settembre, quando ero a Teheran, c’era molta ostilità verso di lei e verso la Libia in genere. E sa bene perché: a causa della scomparsa dell’imam libanese Moussa Sadr. Gli iraniani la accusavano di averlo fatto ammazzare qui a Tripoli e respingevano in pieno la sua tesi cioè quella secondo la quale Mussa Sadr sarebbe scomparso dopo aver lasciato la Libia in aereo: diretto in Italia.
(Gheddafi tace)

Nel corso della mia intervista con l’allora primo ministro Medi Bazargan, parlai abbastanza di questo. Ed ecco quel che mi disse Bazargan. (Mi alzo, vado accanto a Gheddafi che siede sulla poltrona di fronte, e gli leggo il brano dell’intervista in inglese: cioè il testo pubblicato dal New York Times). Mi disse: «Sì, la misteriosa scomparsa di Moussa Sadr è un fattore molto importante nella nostra mancanza di relazioni con la Libia: egli aveva un grosso posto nel cuore dei persiani. E il governo italiano ha ragione a sostenere che egli non giunse mai in Italia. Io lo confermo. Infatti abbiamo chiesto alla Libia di accogliere una nostra commissione di inchiesta e di collaborare con noi nella ricerca di Moussa Sadr. Né stabiliremo relazioni con quel Paese finchè non faranno ciò che abbiamo chiesto». E quando gli feci notare che Sheik Mohammad Montazeri, il figlio dell’ayatollah Montazeri, si era fatto fotografare a Tripoli con lei e con Arafat, poi aveva detto che Moussa Sadr era stato ucciso dai sionisti, infine che Gheddafi si sarebbe recato presto in Iran, invitato da Khomeini per studiare una strategia comune sul trionfo dell’Islam, Bazargan si irritò. Rispose: “Il signor Sheik Montazeri è un anormale che ha bisogno d’essere curato da un medico e tutto ciò che gli dice o che fa riguarda lui e basta”.
(Gheddafi continua a tacere)

Colonnello, non mi risponde nulla?
«Le rispondo che in ogni modo il rapporto tra le due rivoluzioni, quella libica e quella iraniana, è stato ben più profondo di quello che esiste tra due rappresentanze diplomatiche. Questo specialmente dopo la cacciata dello Sciaà e il successo della rivoluzione. L’accordo per la riapertura delle relazioni diplomatiche non è stato che l’atto conclusivo di quel rapporto, il riassunto inevitabile di una amicizia già esistente, e si è sintetizzato il 2 novembre scorso».

Cioè due giorni prima che venisse occupata l’ambasciata americana a Teheran.
«Sì, il 2 novembre: in seguito all’incontro ad Algeri con l’allora ministro degli Esteri Yazdi che aveva chiesto di cedermi. Fu lo stesso Yazdi a dare la notizia alla stampa italiana».

A Algeri dove Yadzi e Bazargan s’erano incontrati con Brzezinski: interessante. Ma perché ha detto «specialmente dopo la cacciato dello Scià e il successo della rivoluzione»? Questo significa forse che ha lei aiutato la rivoluzione iraniana?
«Sì».

In che senso?
(Gheddafi sorride e tace).

Non vuole spiegarsi meglio?
(Gheddafi continua a sorridere e a tacere).

Il fatto è che, a parte il suo odio viscerale per gli americani, verrebbe spontaneo chiedersi: ma che cosa ha in comune Gheddafi con Khomeini? Gheddafi è un giovane militare che non pone nessuna enfasi nella religione, Khomeini è un vecchio prete che vuol imporre a tutti l’osservanza della religione…
«Eh! Vi sono molti uomini come me nella rivoluzione iraniana. Molti. Ed è provato che i rivoluzionari sanno usare l’esercito per aprire la strada alle masse».

Colonnello, lei deve capire l’importanza che do al suo giudizio sui fatti di Teheran. Tempo fa, in un’altra intervista a un giornalista italiano, lei disse che esisteva un unico modo per trattare con gli americani: il fucile. E…
«Io parlavo dei popoli colonizzati come i palestinesi».

I palestinesi non sono colonizzati dagli americani, colonnello!
«Sì, che lo sono. Indirettamente, come molti altri popoli».

Per esempio?

«L’Italia è un paese capitalista, classista, e colonizzato dagli americani».

Colonizzato dagli americani?!?
«Non ci sono basi sovietiche in Italia. Non avete basi sovietiche».

Grazie a Dio. Ci mancherebbero anche quelle!
«Però avete basi americane. E questo è colonialismo».

E avere basi sovietiche è colonialismo o no?
«Io dico che voi avete basi americane, non sovietiche».

Abbiamo anche il più grosso partito comunista occidentale, colonnello.
«Quelli sono comunisti italiani, non sovietici».

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Colonnello, ho l’impressione che il suo odio per l’America e per gli ebrei sia in realtà odio per l’Occidente. Proprio come nel caso di Khomeini. Si rende conto che di questo passo si torna indietro di mille anni, si ricomincia con Saladino e le Crociate?
«Sì e la colpa è vostra: degli americani, dell’Occidente. Anche allora fu vostra, dell’Occidente. Siete sempre voi che ci massacrate. Ieri come oggi».

Ma chi vi massacra, oggi, dove?
«Fu la Libia a invadere l’Italia o fu l’Italia a invadere la Libia? Ci aggredite ora come allora. In altro modo, con altri sistemi e cioè sostenendo Israele, opponendovi all’unità araba e alle nostre rivoluzioni, guardando in cagnesco l’Islam, dandoci dei fanatici. Abbiamo avuto fin troppa pazienza con voi, abbiamo sopportato fin troppo a lungo le vostre provocazioni. Se non fossimo stati saggi, saremmo entrati mille volte in guerra con voi. Non l’abbiamo fatto perché pensiamo che l’uso della forza sia l’ultimo mezzo per sopravvivere e perché noi siamo sempre dalla parte della civiltà. Del resto, nel Medioevo, siamo stati noi a civilizzarvi. Eravate poveri barbari, creature primitive e selvagge…».

…e piangevamo invocando la luce della sua civiltà.
«Sì, la luce della nostra civiltà. La scienza di cui ora gioite è quella che vi abbiamo insegnato noi, la medicina con cui vi curate è quella che vi abbiamo dato noi. E così l’astronomia che sapete, e la matematica, la letteratura, l’arte…».

Davvero?!?
«Sì, perfino la vostra religione viene dall’Oriente. Cristo non era romano».

Era ebreo. Questa è una gaffe. Colonnello, che ne pensa delle Brigate rosse?
«Penso… penso che questi fenomeni dell’Occidente siano il risultato della società capitalistica, movimenti che esprimono il rifiuto di una società da abbattere. Questo sia che si chiamino Brigate rosse sia che si chiamino hippies o Beatles o Figli di Dio. E sebbene sia contro i sequestri di persona come contro il dirottamento degli aerei, non voglio interferire con quello che fanno».

Vedo. Ma non risponde all’accusa di aiutare le Brigate rosse.
«Si tratta di propaganda sionista, una propaganda che risale al periodo in cui il mondo non ci capiva ed eravamo ancora una repubblica. Ora siamo una Jamahiriya, cioè un congresso del popolo e…».

Ma che c’entra la Jamahiriya! Riformulo la domanda: Colonnello, da dove arrivano le armi sovietiche che puntualmente vengono trovate in possesso dei brigatisti e dei loro associati? Non sarà che una parte delle armi da lei fornite ai palestinesi si spostano altrove?
(Cercando le parole) «Ciò… ciò… ciò che lei dice non mi farà esitare un attimo dall’aiutare i palestinesi».

Colonnello, non cambi le carte in tavola per cortesia. E segua il mio ragionamento: supponiamo che lei, in buona fede, consegni le armi ai palestinesi i quali le forniscono di rimando alle Br…
«Non siamo responsabili dell’uso che può essere fatto delle armi che diamo ai palestinesi. Noi le diamo ai palestinesi perché crediamo nella loro causa e riteniamo doveroso aiutarli. Quel che succede dopo non mi riguarda. Se devo essere condannato indirettamente, preferisco le accuse dirette. Ma non ci sono prove».

Forse ci sono indizi. Eccone uno. Pochi giorni prima dell’assassinio di Moro lei offrì il suo intervento per salvargli la vita. Se non ha, non aveva contatti con le Brigate rosse, come poteva dirsi in grado di salvargli la vita?
«Dissi alle autorità italiane che se avevano bisogno di una cooperazione da parte nostra, noi eravamo pronti. Se fossimo stati in contatto con le Brigate rosse gli avremmo salvato senz’altro la vita perché Moro era nostro amico, era sostenitore della causa araba».

E va bene, passiamo a un altro argomento. Colonnello, ma come fa a essere così comprensivo coi terroristi, giudicarli fenomeno di una società da abbattere e poi mantenere ottimi rapporti con gli esponenti più rappresentativi di quella società da abbattere? A parte gli affari che fa con gli americani, pensi a quelli che fa con Gianni Agnelli.
«Gianni chi?».

Gianni Agnelli. Il presidente della Fiat.
«La Fiat? La mia azienda, my company!»

Sì, la sua azienda, la sua company. La Fiat. Agnelli.
«Non lo conosco».

Non conosce Agnelli, il suo socio?!?
«No, non è affar mio conoscerlo. È una faccenda che riguarda i miei funzionari, gli impiegati della mia banca. La Lybian Foreign Bank».

Davvero lei non sa chi è Agnelli, il suo socio?
«No, non lo so».

Mai visto la sua fotografia? Mai udito il suo nome?
«Mai. Non mi interessa, non mi riguarda. Ho altre cose da fare, io, che conoscere i nomi dei miei soci o della gente che appartiene al mondo delle banche».

Ma, a parte finanziare il terrorismo mondiale, che ne fa di tutti quei soldi che guadagna col petrolio?
«Ho già detto…».

Sì, ha già detto che l’accusa non è suffragata da prove. Quindi chiedo scusa e mi correggo: che ne fa di tutti quei soldi, a parte i miliardi che impiega alla Fiat e i terreni che compra e i regali a Malta?
«Noi non compriamo terreni, facciamo investimenti in certi Paesi attraverso la nostra banca estera. Investimenti commerciali. Quanto a Malta è un Paese amico perché è un Paese liberato e neutrale e quei soldi non li diamo al governo di Malta: li diamo al popolo di Malta affinché allarghi il campo della libertà e della neutralità. Del resto non siamo mica soltanto noi libici ad aiutare Malta. Tanti altri aiutano Malta».

E va bene, parliamo della rivoluzione. Ma cosa intende per rivoluzione? Come non mi stancherò mai di ricordare, anche Papadopulos parlava di rivoluzione. Anche Pinochet. Anche Mussolini.
«La rivoluzione è quando le masse fanno la rivoluzione. La rivoluzione popolare. Ma anche se la rivoluzione la fanno gli altri a nome delle masse esprimendo ciò che vogliono le masse, può essere rivoluzione. Popolare perché ha l’appoggio delle masse e interpreta la volontà delle masse».

Ma quello che avvenne in Libia nel settembre del 1969 non fu mica una rivoluzione: fu un colpo di Stato. Sì o no?
«Sì, però dopo divenne rivoluzione. Io ho fatto il colpo di Stato e i lavoratori hanno fatto la rivoluzione: occupando le fabbriche, diventando soci anziché salariati, eliminando l’amministrazione monarchica e formando i comitati popolari, insomma liberandosi da soli. E lo stesso hanno fatto gli studenti, sicché oggi in Libia conta il popolo e basta».

Davvero? Allora perché ovunque posi gli occhi vedo soltanto il suo ritratto, la sua fotografia?
«Io che c’entro? È il popolo che vuole così. Io che posso fare per impedirglielo?».

Beh, proibisce tante cose, non fa che proibire, figuriamoci se non può proibire questo culto della sua persona. Per esempio, questo inneggiarla ogni momento alla televisione.
«Io che posso farci?».

Nulla. È che da bambina vedevo la stessa roba per Mussolini.
«Ha detto la medesima cosa a Khomeini».

È vero. Ricorro sempre a quel paragone quando intervisto qualcuno che mi ricorda Mussolini.
«Gli ha detto che le masse sostenevano anche Mussolini e Hitler».

È vero.
«Si tratta di un’accusa essenziale. E richiede una risposta essenziale. Questa: lei non capisce la differenza che c’è tra me e loro, tra Khomeini e loro. Hitler e Mussolini sfruttavano l’appoggio delle masse per governare il popolo, noi rivoluzionari invece beneficiamo dell’appoggio delle masse per aiutare il popolo a diventar capace di governarsi da solo.
«Io in particolare non faccio che appellarmi alle masse perché si governino da sole. Dico al mio popolo: “Se mi amate, ascoltatemi. E governatevi da soli”. Per questo mi amano: perché, al contrario di Hitler che diceva farò-tutto-per-voi, io dico fate-le-cose-da voi».

Colonnello, visto che non si considera un dittatore, nemmeno un presidente, nemmeno un ministro, mi spieghi: ma lei che incarico ha? Che cos’è?
«Sono il leader della rivoluzione. Ah, come si vede che non ha letto il mio Libro Verde!».

Sì che l’ho letto, invece! Non ci vuole mica tanto. Un quarto d’ora al massimo: è così piccino. Il mio portacipria è più grande del suo libretto verde.
«Lei parla come Sadat. Lui dice che sta sul palmo di una mano».

Ci sta. Dica: e quanto ci ha messo a scriverlo?
«Molti anni. Prima di trovare la soluzione definitiva ho dovuto meditare molto sulla storia dell’umanità, sui conflitti del passato e del presente».

Davvero? E com’è giunto alla conclusione che la democrazia è un sistema dittatoriale, il Parlamento è un’impostura, le elezioni un imbroglio? Vi sono cose che non mi tornano in quel libriccino.
«Perché non lo ha studiato bene, non ha cercato di capire cos’è la Jamahiriya. Lei deve sistemarsi qui in Libia e studiare come funziona un Paese dove non c’è governo né Parlamento né rappresentanza né scioperi e tutto è Jamahiriya».

Che vuol dire?
«Comando del popolo, congresso del popolo. Lei è proprio ignorante».

E l’opposizione dov’è?
«Che opposizione? Che c’entra l’opposizione? Quando tutti fanno parte del congresso del popolo, che bisogno c’è dell’opposizione? Opposizione a cosa? L’opposizione si fa al governo! Se il governo scompare e il popolo si governa da solo, a chi deve opporsi: a quello che non c’è?».

Fonti:

www.corriere.it

www.newyorker.com/