Chi vive a contatto quotidiano con la realtà giovanile se ne era accorto da tempo, anche se sovente le sue osservazioni venivano zittite con affermazioni perentorie e rassicuranti, ma ora i dati che emergono da un’indagine nazionale su “I giovani di fronte al futuro e alla vita, con e senza fede” mostrano uno scenario preoccupante, non solo in un’ottica ecclesiale, ma anche nella più ampia prospettiva del tessuto sociale italiano. La ricerca condotta dall’Istituto Iard di Milano sotto la guida di Riccardo Grassi su un campione di un migliaio di giovani italiani tra i 18 e i 29 anni offre un’istantanea del rapporto tra le nuove generazioni e la fede che suscita più di un interrogativo. Praticamente tutti i dati, raffrontati con un’indagine analoga svolta nel 2004, mostrano un trend in negativo: meno giovani che si definiscono cattolici (ormai superano di poco il 50%), meno credibilità delle figure religiose istituzionali, meno disponibilità ad accettare il ruolo “politico” della chiesa, meno osservanza delle indicazioni etiche e comportamentali indicate dalla chiesa, minor senso di appartenenza a una comunità ecclesiale specifica, minore frequenza della pratica, anche per le grandi solennità di Natale e Pasqua… Gli stessi dati in crescita non sono esenti da ombre e ambiguità: se aumenta in termini proporzionali – ma diminuisce in valori assoluti – la partecipazione saltuaria a “eventi e iniziative promosse da enti religiosi”, questo sembra significare infatti un’accentuazione dell’opzione per una religione fai-da-te che accoglie solo le proposte già in sintoni
a con un percorso individualistico. Così come la radicalizzazione di alcune scelte di campo – la “tifizzazione”, secondo l’espressione di Grassi che vi scorge analogie con le passioni sportive – porta sempre più giovani a schierarsi pro o contro determinate indicazioni della chiesa “a prescindere” da ogni valutazione sul merito delle questioni in discussione.
Siamo davvero di fronte a quella che Armando Matteo, assistente nazionale della FUCI, ha definito “la prima generazione incredula”? Difficile non dare un’amara risposta affermativa. Del resto la fede, come la vita, la si trasmette da persona credibile a persona aperta alla possibilità di credere e non si può pensare che strategie o escamotages possano sostituirsi ai rapporti interpersonali che si creano e si alimentano all’interno di concrete comunità di vita, dalla famiglia, al quartiere, alla parrocchia, all’associazionismo organizzato. Forse negli ultimi decenni molti si sono illusi che il ricorso ai grandi eventi, l’utilizzo delle nuove tecnologie, l’adeguamento ai modelli vincenti di creazione del consenso potessero funzionare anche a livello ecclesiale. Puntare sull’emozione dell’“esserci” ed essere in tanti a eccezionali raduni nazionali o internazionali, focalizzare le energie verso iniziative “drogate” dal numero e dalla visibilità mediatica, ha finito per creare una sorta di assuefazione allo straordinario e al conseguente disinteresse, alla noia, se non al disgusto, per la quotidianità del vissuto.È invece proprio nel tessuto dell’esistenza di ogni giorno che i giovani si trovano a fronteggiare sofferenze e ferite, a cercare un senso alle loro vite, a interrogarsi sulle motivazioni che orientano ogni scelta, a sperare in un futuro ancora da costruire insieme e non già prefabbricato o, peggio ancora, negato: è nell’ordinario di una vita normalissima che ci si trova ad attraversare “il senso di notte e la notte di senso” – secondo l’espressione di Matteo – che paralizzano e portano a cercare surrogati artificiali. Non si tratta di constatare amaramente che “i giovani non sono più quelli di una volta” – per nessuna generazione questo è mai stato vero – né di illudersi con appelli generici ai giovani “futuro della chiesa o della società”, ma piuttosto di prendere atto che i ventenni di oggi sono già una parte del presente della società e che si trovano confrontati con una lancinante mancanza di speranza per il futuro. Nella faticosa ricerca di senso per le loro vite sovente e precocemente attraversate da contraddizioni, lacerazioni familiari, disillusioni lavorative, i giovani non ambiscono tanto a “essere” il futuro di una determinata realtà sociale o ecclesiale, quanto ad “avere” già ora un futuro verso cui tendere, un’attesa capace di riempire di significato il loro presente.
In questo senso i dati che emergono dall’inchiesta mi paiono preoccupanti non solo per la chiesa qui e ora, non solo per l’avvenire che attende l’annuncio del vangelo nel mondo contemporaneo, ma anche per la stessa salute della società: la scomparsa di ideali condivisi, il rarefarsi di luogo di incontro e di confronto, la focalizzazione sui conflitti finiscono per rendere insopportabile quella contraddizione che ogni generazione deve affrontare e superare per passare all’età adulta e responsabile: la non coincidenza tra la teoria e la prassi, tra le belle idee e la dura realtà, tra lo sperato e il vissuto. Spetta agli adulti ritrovare in se stessi i principi che si vorrebbero presenti nei giovani, spetta alla società nel suo insieme offrire segni di un passato verso il quale ci si volge con memoria grata, testimoniare un presente dagli orizzonti aperti, progettare un futuro che valga la pena di essere vissuto, non nello straordinario di rari momenti ma nel quotidiano di una vita armonicamente condivisa.
Enzo Bianchi
(tratto da La Stampa del 25.04.2010)