Raramente il disorientamento è stato tanto grande in Italia. Si ha la netta sensazione che il Paese sia impantanato in una palude. Emblematico della gravità della crisi è lo sbandamento anche dei cattolici. Il sondaggio IPSOS «I cattolici dopo le elezioni del 2009», pubblicato il 24 settembre scorso (consultabile in <www.sondaggipoliticoelettorali.it>), rivela che essi non sanno più che cosa fare: il 77% ritiene che una loro «forza organizzata non serve», mentre il 54% stima che oggi in Italia non vi sia una forza politica che rappresenti i valori cristiani meglio delle altre. La conseguenza è che, nelle consultazioni europee del 2009, l’assenteismo dei cattolici ha raggiunto il 39,1%, con un’impennata del 14,6% rispetto alle elezioni politiche del 2008.
Si direbbe che anche i cittadini di buona volontà, e i cattolici tra loro, si siano assuefatti alla crisi e abbiano perso la volontà di reagire. Come si spiega altrimenti che la maggioranza degli italiani assiste rassegnata allo scempio, che per mesi si parli di «veline» e dei festini del premier, anziché dei gravi problemi che angosciano le famiglie, i giovani, i lavoratori? Com’è possibile che siano così limitati i segni di rivolta morale o le voci di sdegno di fronte a scelte legislative che violano lo spirito (e talvolta la lettera) della Costituzione: dal «lodo Alfano» all’introduzione del reato di clandestinità, al respingimento in mare di poveri in fuga dalla fame e da situazioni disumane, agli attacchi contro la libertà di stampa, al condono fiscale con cui periodicamente si premiano i ricchi disonesti e s’irridono i cittadini onesti?
In una simile situazione, che cosa possono e devono fare i cittadini onesti e, tra loro, i cattolici? Esiste una via per uscire dalla palude? Siamo convinti di sì, come si può vedere: 1) analizzando alcuni orientamenti significativi del quadro politico; 2) recuperando le intuizioni del popolarismo sturziano come antidoto al populismo imperante; 3) sviluppando prospettive realistiche per costruire un «polo (o popolo) delle solidarietà».

1. Orientamenti significativi del quadro politico

Confrontando i risultati delle elezioni politiche dell’aprile 2008 con quelli delle elezioni del giugno 2009, emergono alcuni orientamenti significativi che caratterizzano l’attuale quadro politico.
a) Rifiuto del bipartitismo e consolidamento della logica del bipolarismo. Le elezioni politiche del 2008, infatti, si erano tenute puntando al bipartitismo: Veltroni, che per primo aveva scelto di «andare da solo», al di là dell’alleanza contingente con l’IDV (Italia dei valori), puntava a fare del PD (Partito democratico) il partito unico dei riformisti; Berlusconi, a sua volta, spingendo FI (Forza Italia) e AN (Alleanza nazionale) a confluire nel PDL (Popolo della libertà), mirava al partito unico della destra, al di là dell’alleanza contingente con la Lega Nord.
Tuttavia, l’affermazione dei partiti minori (Lega Nord, IDV e UDC) nelle elezioni europee del 2009, con il ridimensionamento dei due partiti maggiori, e soprattutto il fallimento del referendum sulla legge elettorale del 21-22 giugno 2009 hanno dimostrato che almeno per ora bisogna fermarsi al bipolarismo, senza pensare a costruire due soli grandi partiti; manca infatti la necessaria omogeneità culturale per realizzarli. Un’ulteriore conferma è arrivata dai ballottaggi delle elezioni amministrative avvenuti nelle stesse date, quando l’UDC, forte del consenso elettorale ottenuto (6,51%), si è proposta come ago della bilancia, alleandosi in alcuni casi con il PD e in altri con il PDL: in cinque delle sei Province in cui l’UDC si è alleata con il PD, il centro-sinistra ha vinto largamente; cosicché non pochi commentatori vedono nel ritorno di una coalizione di centro-sinistra rinnovata la via per sbloccare il confronto politico in Italia.
b) Rifiuto del progetto di un centro moderato, secondo quanto emerso dalle ultime consultazioni popolari. Pierferdinando Casini ci ha provato ancora una volta, inutilmente. Aveva già fallito nelle elezioni politiche del 2008 quando, nonostante l’apporto della Rosa bianca di Pezzotta, l’UDC aveva ottenuto il 5,6%, perdendo oltre un punto percentuale sul risultato del 2006 (6,8%). Ora il fallimento del 2009 è la prova definitiva che gli italiani non credono a un partito moderato di centro. Infatti, nel 2008 e nel 2009 – a differenza di quando fallirono Mino Martinazzoli (1994) e Sergio D’Antoni (2001) -, lo spazio per l’affermazione di un centro moderato c’era. Dissolti sia il centro-destra (in seguito all’esclusione di Casini da parte di Berlusconi) sia il centro-sinistra (dopo l’estromissione di Bertinotti da parte di Veltroni), per la prima volta dopo 15 anni si era venuto a creare uno spazio intermedio tra il PDL alla destra e l’Arcobaleno alla sinistra (estrema).
Perciò, l’ennesimo fallimento del progetto di un centro moderato oggi non si può attribuire (come nei casi precedenti) al sistema elettorale, ma al rifiuto dell’elettorato; rafforzato – aggiungiamo noi – anche dalla mancanza di credibilità di una UDC che per 14 anni è stata alleata della destra (dalla quale si è staccata solo perché Berlusconi l’ha respinta) e che oggi si mostra pronta ad allearsi sia con il PDL sia con il PD; come potrebbe essere credibile un partito che invia al Parlamento personaggi inquisiti o addirittura condannati (anche se non con sentenza definitiva) per questioni di mafia, e ricicla uomini del passato che hanno fatto largamente il loro tempo?
c) Improponibilità di un partito d’ispirazione cristiana. Se i cattolici fossero stati interessati all’idea, nel 2008 esistevano tutte le condizioni favorevoli per realizzarla. Non solo si era liberato il necessario spazio intermedio al centro del quadro politico, ma Casini (dopo la fine dell’Unione dei democratici per l’Europa, l’UDEUR di Mastella) aveva buon gioco a presentarsi come l’ultimo epigono della Democrazia cristiana (DC). Inoltre, durante la campagna elettorale, aveva molto insistito sull’identità cristiana dell’UDC e sull’impegno in difesa dei «valori non negoziabili», né erano mancati segnali espliciti di appoggio da parte di autorevoli ambienti ecclesiastici, come nel caso del singolare intervento del 9 febbraio 2008 dell’allora direttore di Avvenire Dino Boffo al TG1 delle 20, che suggeriva a Berlusconi di estendere a Casini il patto stretto con Bossi, accreditando l’UDC come «un partito che fa direttamente riferimento alla dottrina sociale cristiana».
Ebbene, se questi sono gli orientamenti dell’attuale quadro politico, è giunto il momento di chiedersi se non vi sia lo spazio per un’iniziativa politica nuova per uscire dalla palude in cui il Paese è sprofondato, a causa del mix populista di «berlusconismo» e di «leghismo» che sta avvelenando l’Italia. Molti si chiedono perché UDC e PD non si alleino tra di loro. Riteniamo che questa ipotesi almeno per ora sia irrealizzabile: sia perché entrambi i partiti dovrebbero prima rinnovarsi profondamente, cominciando con il chiarire la propria identità, sia perché una coalizione formata dall’UDC e dal PD, più che un’iniziativa nuova, apparirebbe una riproposizione di vecchie logiche.

2. Popolarismo versus populismo

Perché non potrebbero essere i cattolici, svegliandosi dal letargo, a ispirare e promuovere un’iniziativa coraggiosa? Vi insistono da tempo i vescovi, e Benedetto XVI stesso continua a ripeterlo. L’ha detto a Verona, nel 2006, nel Discorso ai partecipanti al IV Convegno nazionale della Chiesa italiana, esortando i cattolici ad «aprirsi con fiducia a nuovi rapporti, non trascurare alcuna delle energie che possono contribuire alla crescita culturale e morale dell’Italia»; lo ha ribadito a Cagliari, nel 2008, nella celebrazione eucaristica al santuario di Nostra Signora di Bonaria, quando ha auspicato l’avvento di «una nuova generazione di laici cristiani impegnati capaci», e ora ne ha indicato i presupposti nell’enciclica Caritas in veritate (cfr <www.vatican.va>).
Anzi, proprio la coincidenza della pubblicazione dell’enciclica con le celebrazioni per il 50° della morte di don Sturzo offre l’occasione di richiamare l’attenzione sulla validità del popolarismo per porre un argine alla pericolosa deriva populista oggi in atto in Italia (cfr CAMPANINI G., L’eredità di Sturzo, in questo fascicolo alle pp. 651-661). Non si tratta di alimentare sterili nostalgie per il passato. Sturzo non accettò mai che i cattolici formassero un partito proprio e «collaterale» alla Chiesa, come poi accadde con la DC. Secondo lui i cattolici democratici avrebbero dovuto dare vita piuttosto a un’«area popolare democratica», cioè a un soggetto politico laico e autonomo nei confronti della Chiesa, aperto a tutti i «liberi e forti» (credenti e non credenti), fondato sul primato della società civile (cfr «Riattualizzare il popolarismo sturziano», in SORGE B., Cattolici e politica, Armando editore, Roma 1991, 261-279). È importante, perciò, evidenziare la piena coincidenza del recente insegnamento sociale della Chiesa con i quattro elementi essenziali del popolarismo sturziano: a) ispirazione religiosa, b) laicità, c) riformismo coraggioso, d) territorialità (ivi, 266 ss.).
a) Ispirazione religiosa. L’originalità del popolarismo sturziano, in aperto contrasto con le diverse forme di populismo e con i vecchi partiti ideologici, sta nel porre l’ispirazione religiosa a garanzia dei diritti civili e delle libertà fondamentali. Essa, nel pieno rispetto della laicità – spiega don Sturzo – non può non avere rilevanza anche politica, perché è «la realizzazione concreta sociale del bisogno dell’assoluto», su cui si fondano diritti e doveri; «l’errore moderno è consistito nel separare e contrapporre umanesimo e cristianesimo: dell’umanesimo si è fatto un’entità divina; della religione cristiana un affare privato […]. Bisogna ristabilire l’unione e la sintesi dell’umano e del cristiano» (cit. ivi, 267 s.).
Ribadisce papa Ratzinger: «La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità» (Caritas in veritate, n. 56).
b) Laicità. Popolarismo – dice Sturzo – è dare voce a una tendenza della base sociale del Paese, di tutti coloro (credenti e non credenti) che si riconoscono in un programma di cose da fare, ispirato ai valori di un umanesimo trascendente, ma mediati in scelte laiche, condivisibili da tutti gli uomini di buona volontà, in vista del bene politico comune che è laico. Che ciò sia possibile lo dimostra la nostra Costituzione, i cui valori ispiratori sono chiaramente laici e concordano con i principi fondamentali della dottrina sociale della Chiesa: primato della persona, solidarietà, sussidiarietà, bene comune.
Così anche Benedetto XVI nel discorso all’Eliseo (12 settembre 2008): «In questo momento storico in cui le culture si incrociano tra loro sempre di più, sono profondamente convinto che una nuova riflessione sul vero significato e sull’importanza della laicità è divenuta necessaria. È fondamentale infatti, da una parte, insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini sia la responsabilità dello Stato verso di essi e, dall’altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società».
c) Riformismo coraggioso e responsabile. Il primato della società civile – dice Sturzo – porta diritto al rifiuto del «conservatorismo» e del «moderatismo» e alla ricerca di un riformismo coraggioso e responsabile: «I conservatori – conclude nel famoso discorso di Caltagirone (24 dicembre 1905) – sono dei fossili, per noi, siano pure dei cattolici; non possiamo assumerne alcuna responsabilità. Ci si dirà: ciò scinderà le forze cattoliche. Se è così, che avvenga. […] Due forze contrarie che si elidono arrestano il movimento e paralizzano la vita».
Il vero riformismo, secondo Sturzo, si deve fondare sul nesso tra sussidiarietà e solidarietà. Infatti, «I mondi vitali, le classi, i Comuni, le Province e le Regioni sono – nella concezione popolare sturziana – gli organi naturali della società. Ognuno di questi organi ha le sue caratteristiche, la sua autonomia, la sua ragion d’essere che nessuno può violare. Nella solidarietà di questi organi tra di loro e in vista del bene comune sta la forza del riformismo democratico, che porta lo Stato a essere sempre più un’espressione adeguata della società, delle sue esigenze, delle sue aspirazioni» (cit. in SORGE B., Cattolici e politica, cit., 276 s.).
È la medesima riflessione di Benedetto XVI nella Caritas in veritate. Ribadita la necessità di «incentivare la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace dell’umanità», egli sottolinea: «Il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno» (nn. 56-58).
d) Territorialità. Infine, un popolarismo autentico nasce dalla base. Sturzo si convinse del ruolo insostituibile delle autonomie locali in seguito all’esperienza diretta che ne fece, come consigliere comunale e provinciale e come pro-sindaco di Caltagirone. Venne da qui il suo impegno regionalista, con il quale si adoperò per porre un argine alla deriva dell’individualismo liberista e populista.
È interessante notare che su questa linea si muove un importante documento del Consiglio permanente della CEI. Nel 1981, di fronte ai primi segnali di crisi della DC, i vescovi parlarono di una nuova forma di presenza dei cattolici in collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà: «Si parte dalle realtà locali, dal territorio. E si è partecipi delle sorti della vita e dei problemi del Comune, delle circoscrizioni e del quartiere: la scuola, i servizi sanitari, l’assistenza, l’amministrazione civica, la cultura locale. Ci si apre poi alla struttura regionale, alla quale oggi sono riconosciute molte competenze di legislazione e di programmazione. Così la presenza si estenderà anche ai livelli nazionale, europeo e mondiale, e potrà avere efficacia. È sbagliato, infatti, contare solo sui tentativi di rifondazione o di riforma che vengono dai vertici della cultura ufficiale e della politica» (La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 1981, n. 33).
Pertanto, tenendo presenti gli attuali orientamenti del quadro politico e l’insegnamento sociale della Chiesa, non è azzardato concludere che oggi è possibile riattualizzare il popolarismo sturziano, per far fronte ancora una volta al ricorrente pericolo d’involuzione populista. Quali sono le prospettive concrete di riuscirvi?

3. Il «polo (o popolo) delle solidarietà»

È difficile dirlo oggi con certezza, perché molto dipenderà dall’evoluzione che nei prossimi mesi subiranno sia i partiti, sia il quadro politico. Di certo nelle ultime settimane i rapporti istituzionali si sono fatti molto tesi anche a seguito della bocciatura del «lodo Alfano», che rischia di destabilizzare o radicalizzare il «berlusconismo». Per questo è quanto mai urgente che tante energie attualmente in fuga dalla politica o inutilizzate si mobilitino per riattualizzare il popolarismo con i suoi elementi caratteristici (ispirazione cristiana, laicità, riformismo, territorialità). Si tratta di cominciare a federare tra loro le diverse realtà locali, che si riconoscano sulla base di una cultura politica condivisa, coinvolgendo responsabilmente le municipalità, l’associazionismo, i corpi intermedi, i mondi vitali, con il proposito di rafforzare lo Stato unitario e di ristabilire il primato dell’etica civile nelle relazioni sociali. Si tratta, cioè, di costruire un’area neopopolare democratica che, a partire dalle Regioni, giunga ad avere dimensione nazionale.
Ovviamente il cammino non sarà breve, almeno per due ragioni. La prima è legata alla continua nascita di movimenti politici che, intercettando il diffuso e comprensibile malcontento dei cittadini, sottraggono energie positive al bene del Paese, quando non sono delle vere e proprie schegge impazzite (come il recentissimo Movimento 5 stelle di Beppe Grillo). La seconda è la necessità che si rinnovi la classe politica. Occorre, cioè, che i vecchi leader si facciano da parte (non esistono «uomini per tutte le stagioni») ed emerga un gruppo di donne e uomini credibili e preparati, provvisti di entusiasmo e di coraggio.
Che si chiami area neopopolare democratica o in altro modo, tale nuovo soggetto politico e le altre eventuali forze riformiste potrebbero dare vita insieme a un polo (o popolo) delle solidarietà, ossia a una rinnovata e diversa strategia di centro-sinistra, finalmente in grado – nell’ottica dell’alternanza propria del bipolarismo – di realizzare un’alternativa effettiva al populismo.
Dunque, la nuova iniziativa non mira a scomporre i partiti esistenti per attrarre a sé i militanti che già operano nell’uno o nell’altro soggetto politico. Le differenti culture politiche che hanno fatto l’Italia, e alle quali i partiti si richiamano, non devono andare disperse, e va ribadita la legittimità di tutti i cittadini – cattolici inclusi – di militare in qualsiasi partito autenticamente democratico. Si propone invece di alimentare il dialogo tra le diverse componenti democratiche del nostro Paese, vigilando con attento discernimento così da cogliere eventuali nuovi fermenti riformisti (circoli culturali, associazioni, movimenti, ecc.).
A noi qui preme soprattutto di mostrare che una strada per uscire dalla palude esiste e che non c’è più tempo da perdere nel percorrerla. Nessuno dunque può tirarsi indietro. Questo è il momento di osare.

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Bartolomeo Sorge S.I.
Direttore di «Aggiornamenti Sociali»